Il quesito può apparire forte, spiazzante. Addirittura paradossale, penserà qualcuno, per un’azienda, come la nostra, che si occupa (anche) di trattamento acque. Eppure l’interrogativo che poniamo attorno al tema dell’addolcimento dell’acqua in ambito industriale non è così peregrino. E vale la pena essere affrontato.
Addolcitore industriale: che cos’è e come funziona
Tutto ruota attorno all’acqua, un elemento centrale per gli ecosistemi, anche industriali. In particolare, tutto ruota attorno alla durezza dell’acqua, ovvero al contenuto totale di sali di calcio e magnesio disciolti al suo interno. Quando le acque “dure” evaporano o si riscaldano causano l’accumulo di carbonati di calcio, che, depositandosi sulle superfici di contatto, le incrostano. E, con il tempo, si rischia di compromettere l’efficienza di macchinari e impianti. Ecco perché si ricorre agli addolcitori industriali. L’obiettivo è rimuovere il calcare, responsabile delle incrostazioni, contribuendo a mantenere e migliorare lo scambio termico delle superfici metalliche e plastiche degli impianti. Questa tecnica viene implementata, di norma, ogniqualvolta si utilizza acqua nel processo produttivo. Per esempio, nel trattamento di acque:
• di riscaldamento in circuiti chiusi, acque calde sanitarie o di processo;
• di raffreddamento con reintegro parziale di acqua (che possono essere gestite anche senza addolcimento);
• destinate alla produzione di vapore, alimento per generatori di vapore diretti/indiretti.
L’addolcimento si ottiene facendo passare l’acqua attraverso particolari resine che permettono lo scambio ionico. In questo modo, i carbonati di calcio e di magnesio vengono trasformati in sali di sodio altamente solubili. Si tratta di un trattamento, sicuro e affidabile, applicato da decine di anni, che consente di aumentare la vita operativa dei macchinari e migliorare il funzionamento di tutte le componenti dell’impianto.
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Rigenerazione: occhio ai limiti
Fin qui, dunque, è sì. Nei processi di addolcimento dell’acqua, tuttavia, lo scambio ionico avviene milioni di volte. Fino al punto in cui le resine non sono più in grado di scambiare ioni. Si deve, quindi, ricorrere alla rigenerazione. Si tratta di un processo per ripristinare la corretta funzionalità delle resine. Queste, di fatto, vengono nuovamente attivate mediante una soluzione di cloruro di sodio: la salamoia. Un processo di manutenzione come quello della rigenerazione, però, può portare con sé problematiche relative alla concentrazione dei cloruri nelle acque di scarico. Ricordiamo che, secondo quanto previsto dal Testo Unico Ambientale¹, il valore limite di emissione del cloro non deve superare i 1.200 mg/l in fognatura o superficie. Limite ancora più restrittivo per lo scarico sul suolo che, invece, deve rimanere dentro i 200 mg/l.
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Addolcimento dell’acqua e D.Lgs. 152/2006
Troppo spesso, in azienda i parametri relativi alla concentrazione di cloruri delle acque reflue non rientrano negli standard previsti dalla legge. Il motivo sta nel trattamento a cui viene sottoposta l’acqua in uscita dagli impianti. In generale, possiamo trovarci davanti a due situazioni:
• se lo scarico dell’addolcitore viene convogliato all’interno di altri scarichi dello stabilimento, la concentrazione di cloruri sarà notevolmente diluita. Si potrà, dunque, conferire in fognatura un’acqua conforme al D.Lgs. 152/06.
• Qualora, invece, in azienda sia presente soltanto lo scarico dell’addolcitore, l’acqua in uscita non sarà conforme ai limiti di legge e si va incontro a sanzioni amministrative.
Anche per questo, le aziende sono, di fatto, “costrette” a non installare queste apparecchiature o, addirittura, a toglierle. Ed eccoci all’interrogativo del titolo: addolcimento dell’acqua sì o no?
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Il fattore economico
La risposta, alla fine, è sì: su un’ideale bilancia, il piatto pende dalla parte dell’addolcimento dell’acqua. Tuttavia, vi sono accortezze da tenere a mente. Intanto, gli addolcitori industriali hanno un costo: indicativamente, si va dai 2.000 ai 20.000 euro, ma si può arrivare anche a 50/60.000 euro. Dipende dalle dimensioni, in primis, ma anche dalla tipologia di bombole e valvole utilizzate, dalle modalità di gestione, eccetera. Bisogna considerare, inoltre, i costi di gestione per la manutenzione ordinaria e per il consumo di acqua e di sale necessari per le rigenerazioni. Senza dimenticare la manodopera. Numeri alla mano, per ogni litro di resina servono dai 120 a 200 gr di sale. Ipotizzando la necessità di 500 litri di resina e 150 gr di sale, servono 75 kg di sale a rigenerazione. Contando che un sacchetto di sale da 25 kg costa circa 6 euro, per ogni rigenerazione (da fare ogni 2 o 3 giorni) si vengono a spendere circa 20 euro.
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Pro e contro dell’addolcimento
C’è dell’altro. Talora può capitare che un addolcitore funzioni male, specie nei circuiti di raffreddamento, finendo per essere controproducente. Un esempio? In fase progettuale si stabilisce che il sistema di raffreddamento debba lavorare con una certa durezza dell’acqua e con un ciclo di concentrazione ben definito. Più avanti, però, si scopre che i parametri sono diversi e, dunque, l’addolcitore risulta mal tarato e non funziona correttamente. Il rischio è di sporcare le superfici di scambio termico. Ciò provoca un aumento dei costi di manutenzione per far fronte agli opportuni lavaggi. Inoltre, l’addolcitore può generare fughe di cloruri, prelevati durante la rigenerazione, con conseguenti aumenti indesiderati della salinità e problemi legati alla corrosione, anche di acciai inossidabili. In sintesi, quindi, il ricorso all’addolcimento dell’acqua è una tecnica dall’indubbio valore, ma che va ben ponderata e, soprattutto, adattata al singolo caso aziendale, con una progettazione ad hoc. Anche perché, negli anni, sono state sviluppate soluzioni tecniche che rappresentano alternative agli addolcitori industriali e che li mettono in condizioni di lavorare senza patemi di avere lo scarico non conforme.
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